Bandiera Ucraina

Water grabbing di guerra: la Russia invade (anche) per l’acqua

di Giorgio Kaldor

 

Con l’invasione del 24 febbraio scorso si è riacceso il conflitto tra Russia e Ucraina. Mentre nascono i legittimi interrogativi sul futuro, il difficile gioco delle previsioni si scontra però con una certezza: la guerra è un processo senza vincitori. Gli accadimenti di questi giorni iniziano a dimostrarlo. Devastazione, vittime civili e non, minaccia nucleare, sanzioni. Si rinsaldano vecchie alleanze e ne nascono di nuove. La propaganda informa, ci si arma, mentre il conato dell’autodifesa spinge le parti coinvolte a voler essere protagoniste. Nella confusione generale molti però non si accorgono di un personaggio in cerca d’autore, l’acqua. Vediamo qual è il suo ruolo nella guerra in corso.

16 marzo. Continua l’assedio russo a Mariupol, la città portuale che affaccia sul mar d’Azov, in Ucraina. Nonostante i corridoi umanitari la situazione per i cittadini è tragica. L’aggressore punta allo sfinimento della popolazione non soltanto coi bombardamenti. Mancano cibo, elettricità, farmaci. Ma soprattutto manca l’acqua. L’organizzazione Medici Senza Frontiere, in un due comunicati del 5 e 7 marzo, ha riportato le testimonianze audio di operatori bloccati in città. “Ieri abbiamo raccolto neve e acqua piovana per avere un po’ di acqua. Abbiamo cercato di prenderla nei punti di distribuzione ma la coda era enorme. (…) In un condominio alcune persone recuperavano l’acqua dall’impianto di riscaldamento per lavarsi le mani o solo per altri bisogni molto, molto basilari.”

Il water grabbing, l’accaparramento, prende così la forma di una privazione destinata a prosciugare le forze e costringere un’intera città alla resa. Ma il conflitto in corso svela altri lati del fenomeno. Si sottrae acqua con la forza anche per liberare il campo dai civili prima di un’occupazione, come accaduto nell’area metropolitana di Donetsk, una delle due autoproclamate repubbliche dell’est ucraino. Nei giorni precedenti il 20 febbraio – fa sapere il Comitato Internazionale della Croce Rossa – le ostilità hanno reso inservibili l’impianto di depurazione di Karlivska e la First Lift Pumping Station della South Donbas Waterway, la principale conduttura idrica dell’oblast (ndr l’equivalente amministrativo delle regioni italiane). Fino a quel momento tali infrastrutture servivano a soddisfare i bisogni di oltre un milione di persone, compresi ospedali e altri servizi essenziali che ora dipendono dalle cisterne d’acqua. Difficile individuare con certezza la provenienza del duro colpo. Fatto sta che è arrivato subito dopo che Denis Pushilin, il leader separatista di Donetsk, annunciava un’evacuazione di massa.

Nei giorni precedenti all’invasione l’acqua è stata usata anche come strumento di difesa da parte delle forze ucraine. Gli allagamenti intenzionali, necessari a rallentare le forze d’occupazione di una colonna russa in stallo, sarebbero dimostrati dalle immagini satellitari messe a disposizione dai ricercatori di Planet Labs PBC al Washington Post. Secondo il giornale americano dal confronto tra il prima e il dopo – i due scatti risalgono al 22 e al 28 febbraio – l’area vicino al fiume Dnepr appare “notevolmente più impregnata”. “Quando ti difendi usi quel che puoi”, ha commentato Marta Kepe, senior defense analyst della RAND Corporation, think tank creato nel 1948 per offrire consulenze alle forze armate Usa: “Nella storia ci sono tanti esempi in cui Paesi hanno eretto fortificazioni, ma spesso ci si dimentica che anche fiumi, paludi e linee di difesa basate sull’acqua possono essere usate”.

La cosiddetta “guerra idraulica” non è certo un’invenzione del XXI secolo. Nei Paesi Bassi, come ricorda uno studio della European Geosciences Union, la tattica sarebbe stata utilizzata più volte tra il sedicesimo e ventesimo secolo, anche se non sempre con i risultati sperati. A subire i danni più gravi di questo tipo di inondazione sarebbero infatti i civili e l’ambiente. Un esempio su tutti: nel 1938, quando i militari cinesi decisero di distruggere gli argini sul Fiume Giallo per rallentare l’avanzata giapponese, i morti furono oltre mezzo milione. Non solo a causa delle inondazioni dirette, ma anche delle malattie e carestie derivanti dallo stravolgimento del territorio.

Nel 2014 anche l’Ucraina ha impiegato l’acqua come arma. Nel 2014, dopo l’invasione russa della Crimea, le autorità ucraine hanno deviato il corso del North Crimean Canal, necessario ad alimentare il comparto industriale ed agricolo della tanto strategica quanto arida penisola. In alcuni casi furono necessari razionamenti anche dell’acqua potabile. Poiché l’acqua non si può che gestire a livello locale e regionale – non potendola trasportare tanto facilmente – nel luglio 2021 il governo russo gridò al genocidio e decise di porte il caso di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, organismo affiliato a quello stesso Consiglio d’Europa da cui Putin ha annunciato il ritiro. Del resto di quella decisione non c’è più bisogno: lo sbarramento nei primi giorni di conflitto è stato colpito e l’acqua è tornata a scorrere.

A ruoli invertiti, una situazione simile si era verificata nel 2008. A seguito dell’invasione della Georgia le autorità filorusse dell’Ossezia del Nord avevano deciso di interrompere il flusso d’acqua che alimenta il sistema irriguo di Tiriphoni, ripristinato solo nel 2014 grazie ad un nuovo collegamento. Stesso destino per la Enguri Dam, sbarramento da 1300MW alto 270 metri posizionato così vicino al territorio della Abkhazia separatista da avere la diga dal lato georgiano e la centrale elettrica dall’altro. Un confine letteralmente ad alta tensione e chiaro esempio di come gli sbarramenti possano essere usati per il watergrabbing.

L’acqua può essere un’arma, come abbiamo visto. Ma dentro il conflitto russo ucraino si cela anche una guerra nascosta per l’acqua? Come dimostra il caso della Crimea, l’oro blu è un vero e proprio economic enabler e da esso dipendono sopravvivenza e processi produttivi, basti pensare a quanta acqua serve a raffreddare centrali a carbone o reattori nucleari come quelli della nota centrale di Zaporizhzhia. Per non parlare dei 900 litri necessari a produrre 1 kg di grano, derrata che sta subendo un rincaro in ragione del fatto che l’Ucraina ne è il terzo esportatore mondiale. Ma c’è di più. Senza acqua le risorse energetiche e minerarie restano sottoterra.

L’Ucraina, secondo i dati IEA, possiede riserve stimate in 5,4 trilioni di metri cubi per il gas naturale e 850 Mt di riserve di petrolio. Il dicembre scorso il governo ucraino, che possiede il 2% delle riserve di uranio mondiale, aveva annunciato un aumento della produzione rispetto alle 995 tonnellate annue attuali. Ma è il carbone a rappresentare oltre il 90% del combustibile fossile nel sottosuolo ucraino; 32 gigatonnellate (49 GT se si considerano le proiezioni per i giacimenti ancora non sfruttati), sufficienti a rendere l’Ucraina il 6° Paese al mondo per riserve di carbon fossile. Se si considera che per estrarre 1 tonnellata di carbone o produrre 1 tonnellata di uranio servono in media rispettivamente 1,3 m3 e 2740 m3 d’acqua si capisce che, in fondo, la Russia di Putin voglia l’Ucraina anche per le sue risorse idriche.