Forum Alternativo Mondiale Acqua

Dakar, ecco anche la dichiarazione del Forum Alternativo Globale per l’Acqua

di Giovanni Beber

 

Dal 21 al 26 marzo 2022 si è tenuto a Dakar in Senegal il Forum Alternativo Globale per l’Acqua (FAME). L’iniziativa è nata per costruire un’alternativa concreta al Forum Mondiale dell’Acqua (FME), summit organizzato ogni tre anni dal Consiglio Mondiale dell’Acqua, un’organizzazione internazionale promossa dalle principali imprese multinazionali e dalla Banca Mondiale, ma slegata dalle Nazioni Unite.
Fin dalla sua fondazione il FAME si riunisce nello stesso luogo e periodo del Forum Mondiale principale. Il suo scopo è però quello di ascoltare la voce di rappresentanti dei movimenti contadini, donne, giovani, ONG, lavoratori e sindacati, comunità religiose e popoli indigeni di tutti i continenti, che lavorano collettivamente per difendere il diritto all’acqua e ai servizi igienici.

Perché un Forum alternativo? Gli organizzatori del FAME vogliono evitare che l’acqua venga trattata come un bene di mercato perché credono faccia parte dei beni comuni globali, da condividere equamente e da proteggere per le generazioni future. Oltre a protestare contro le multinazionali riunite al FME, il summit ha lo scopo di favorire anche la presentazione di alternative, l’apprendimento collettivo, la pianificazione e la ricerca di nuovi modelli di vita sostenibili. Per il FAME l’acqua è alla base della vita come la terra e l’aria e per questo va rispettata, per la conservazione della biodiversità e degli ecosistemi attraverso l’agroecologia.

Anche in questa edizione il FAME ha offerto l’opportunità di imparare, mobilitarsi e organizzare e unire le lotte per il diritto umano all’acqua in Africa con altre lotte contro la privatizzazione in tutto il mondo.
Il tema di quest’anno era “L’accesso all’acqua e ai servizi igienici è una questione di salute pubblica e un barometro della democrazia” e il programma del forum ha visto l’alternarsi di conferenze, workshop, mostre, visite in loco, proiezioni di film documentari e laboratori, al termine dei quali gli organizzatori hanno rilasciato una dichiarazione.

Il testo di questo documento finale dichiara che “[…] La scarsità d’acqua colpisce quasi il 40% della popolazione mondiale; le acque sotterranee, che costituiscono il 99% dell’acqua dolce liquida sulla terra ed è in gran parte invisibili, si stanno rapidamente esaurendo portando a una siccità diffusa. Tre persone su dieci non hanno accesso a servizi di acqua potabile gestiti in sicurezza.”
Il documento prosegue con un focus su donne, ragazze e bambini, le persone su cui pesa di più il mancato accesso ad acqua e strutture igienico-sanitarie di base. Si dichiara, di conseguenza, la necessità di rendere acqua potabile e servizi igienici accessibili pubblicamente per chiunque, indipendentemente da estrazione sociale ed etnia.

Per provare a contrastare gli interessi delle multinazionali, il Forum Alternativo Globale per l’Acqua propone infine una serie di iniziative convergenti, una campagna internazionale per sensibilizzare sulle problematiche trattate, riunioni di rete più frequenti per progettare il prossimo Forum che si terrà a Bali, la creazione di una Conferenza indigena delle Nazioni Unite sull’acqua e richiede inoltre che venga istituito dalle Nazioni Unite un’Alta Autorità Indipendente per l’Acqua.

“Gli obiettivi del FAME sono ambiziosi ma, nel contesto mondiale attuale, sono sempre più urgenti”, ha dichiarato Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory. “Questo movimento ha lavorato per anni per il riconoscimento dell’accesso all’acqua come uno dei diritti fondamentali da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 luglio 2010. Il forum alternativo ha un ruolo storico e politico che merita riconoscimento”.

Non può bastare un eventuale interessamento da parte delle organizzazioni sovranazionali. La lotta per la libertà dell’acqua molto dipende anche dall’apporto che ognuno può dare ed è fondamentale il coinvolgimento dal basso. Come si legge nella Dichiarazione, “affinché le persone vivano dignitosamente e in buona salute, l’acqua deve essere gestita a tutti i livelli, in modo concertato, inclusivo, equo e partecipativo, rispettando i diritti delle comunità di base, dei popoli indigeni, degli equilibri ecologici, delle conoscenze indigene locali e tradizionali e valori endogeni e la loro libertà di far valere questi diritti liberi dalla repressione e dalla violenza.”

 

Qui il link alla Dichiarazione completa 

Report Unesco

“Rendere visibile l’invisibile”. Il nuovo report ONU sullo stato delle acque sotterranee

di Marco Ranocchiari

 

Le acque sotterranee rappresentano da sole il 99% dell’acqua allo stato liquido presente sulla Terra e dissetano metà della popolazione mondiale. Eppure, sono una risorsa “ancora poco compresa, e di conseguenza sottovalutata, mal gestita e persino abusata”. A sostenerlo è il nuovo Rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche mondiali, presentato a Dakar, in Senegal, in concomitanza con la Giornata Mondiale dell’Acqua che si è tenuta il 22 marzo scorso. Il rapporto di quest’anno, intitolato significativamente “Acque sotterranee. Rendere visibile l’invisibile”, è il nono di una serie di documenti tematici redatti dal Segretariato UNESCO del Programma per la Valutazione delle Risorse Idriche Mondiali (WWAP). Secondo gli autori, questa risorsa rivestirà un ruolo sempre più centrale in un mondo sempre più assetato. Per questo serve una gestione consapevole a livello globale che la protegga da sfruttamento indiscriminato, inquinamento e dai potenziali conflitti per il controllo delle falde condivise tra più territori.

 

Gli utilizzi delle acque sotterranee
Anche se non sempre facilmente estraibili, si legge nel rapporto, le acque sotterranee costituiscono di gran lunga il più importante serbatoio di acqua dolce liquida del nostro pianeta. Rappresentano la risorsa complessivamente più utilizzata a scopo potabile e contribuiscono, in misura variabile ma fondamentale, a quasi tutte le attività umane, dall’agricoltura all’industria ai servizi igienico-sanitari, senza tralasciare i servizi culturali, ricreativi e religiosi connessi a sorgenti e risorgive. Ogni anno vengono prelevati dalle falde oltre 900 chilometri cubi di acqua, il 25% del totale delle acque utilizzate dall’uomo. Di questi, due terzi sono destinati all’agricoltura, un decimo alle industrie, e poco meno di un quarto agli usi domestici. Per buona parte della popolazione mondiale attingere dalle acque sotterranee, soprattutto nelle aree rurali, rappresenta l’unico modo di accedere alle risorse idriche essenziali.
Bastano questi dati a spiegare l’importanza di una risorsa che si tende a dare per scontato. “Negli ultimi anni il report UNESCO è diventato uno strumento fondamentale nel porre l’attenzione sia a livello tecnico-scientifico che politico su tematiche finora poco visibili, e ha contribuito moltissimo alla consapevolezza del ruolo centrale dell’acqua nella lotta ai cambiamenti climatici”, commenta Marirosa Iannelli, presidente di Water Grabbing Observatory.

 

Tra inquinamento e sfruttamento eccessivo
Su scala globale, la principale fonte di inquinamento per gli acquiferi è l’agricoltura, soprattutto per via dei nitrati contenuti nei fertilizzanti, dei pesticidi e degli insetticidi. Ma è nei centri abitati che lo stato delle falde mette più spesso a rischio la popolazione: dove manca un adeguato sistema di fognature, si legge nel rapporto, i pozzi e gli impianti di acqua potabile in condizioni non ottimali (il 30% del totale) rischiano di essere contaminati.
L’altra grave minaccia è l’estrazione eccessiva. L’aumento dei prelievi, stimato intorno all’1% l’anno, si traduce in un impoverimento delle acque sotterranee dell’ordine di 100-200 chilometri cubi ogni anno.  Il sovrasfruttamento sta causando un abbassamento dei livelli di falda particolarmente preoccupante nella regione araba, con effetti potenzialmente devastanti su gruppi vulnerabili non ufficialmente collegati alle reti idriche. Radicalmente diversa la situazione dell’Africa subsahariana dove, nonostante oltre 400 milioni di persone non abbiano accesso ai servizi idrici essenziali, gli acquiferi costituiscono una risorsa ancora poco o male sfruttata. Anche nei Paesi asiatici, che da soli rappresentano circa il 60% del totale mondiale dei prelievi, il rischio di esaurimento delle falde solleva preoccupazioni. In particolar modo in Cina, in diverse parti dell’Asia centrale e meridionale e in alcuni centri urbani dell’Asia sudorientale. In America Latina, invece, le maggiori criticità risiedono nella scarsa capacità degli stati di vigilare sullo sfruttamento intensivo e sulla contaminazione degli acquiferi, mentre in Europa e Nord America le maggiori sfide riguardano l’esposizione a inquinanti agricoli e industriali.

 

Serve una gestione integrata (e comune)
In molti Paesi, scrivono gli autori, le acque di falda vengono considerate come una risorsa privata, mentre le politiche adottate per gestirle si concentrano sul loro utilizzo dopo il prelievo. Gli acquiferi dovrebbero essere invece parte integrante di una prospettiva molto più ampia, sia a livello locale che internazionale, che veda i governi assumere appieno il ruolo di custodi di un bene da considerare comune. Servirebbero strutture giuridiche e istituzionali dotate dell’autorità necessaria a gestire la risorsa, che non dovrebbe essere limitata a livello governativo ma presa in carico anche da utenti e comunità locali. Gli esperti suggeriscono inoltre un approccio integrato che privilegi soluzioni “basate sulla natura”, che forniscano simultaneamente benefici ambientali, sociali ed economici, con particolare attenzione all’uguaglianza di genere e alla riduzione della povertà.

 

Una risorsa in teoria senza confini
Un aspetto particolarmente problematico è rappresentato dagli oltre trecento acquiferi transfrontalieri, cioè condivisi tra più Paesi. In questi casi – soprattutto nell’Africa sub-sahariana e in parte dell’Asia orientale e dell’America centrale – ai consueti fattori di stress per le falde vanno aggiunti quelli politici, causa di conflitti reali e potenziali. Inoltre, nonostante esistano alcune leggi su tali acquiferi, i Paesi che le hanno sottoscritte sono ancora pochi e la consapevolezza del problema è ancora bassa. “Quando pensiamo ai conflitti legati all’acqua pensiamo al controllo delle infrastrutture, alle acque del rubinetto. Ma perché l’acqua arrivi al rubinetto servono le falde acquifere”, commenta Marirosa Iannelli. Questo, continua, “rappresenta un elemento di debolezza in termini di gestione delle acque su cui è necessario lavorare molto. Abbiamo bisogno di una diplomazia dell’acqua per garantire la pace idrica”.

 

Le falde e l’adattamento ai cambiamenti climatici
Ci sono ancora poche certezze sull’effetto complessivo dei cambiamenti climatici sulle acque sotterranee. Un aspetto particolarmente preoccupante è la maggiore facilità con cui, durante le sempre più frequenti piogge estreme, patogeni e altri inquinanti penetrano nelle falde acquifere. L’innalzamento del livello del mare, intanto, sta già portando all’intrusione di acque salate nelle falde delle aree costiere. La minaccia maggiore risiede però nell’aumento dei prelievi, che a causa dell’innalzamento delle temperature è destinato ad intensificarsi.
Le falde, tuttavia, possono rivelarsi determinanti per diversificare le fonti di approvvigionamento. Offrono grandi capacità di stoccaggio nei periodi di siccità, che potrebbe essere attuato anche artificialmente attraverso la ricarica gestita degli acquiferi (MAR), una pratica in forte sviluppo e che, secondo gli esperti, potrebbe fornire un aiuto essenziale contro la scarsità idrica in molte regioni. Gli acquiferi profondi sono anche utili alla riduzione delle emissioni, sia perché alla base della produzione di energia geotermica sia in quanto potenziali serbatoi per il sequestro della CO2.
Le acque sotterranee, concludono gli autori, possono quindi fornire un aiuto prezioso per sconfiggere la scarsità idrica. A patto che diventino finalmente visibili.

 

Qui il link al report completo 

Referendum 2011

Giornata Mondiale dell’Acqua: Intervista a Paolo Carsetti, Segretario del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

di Giorgio Kaldor

 

In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, Water Grabbing Observatory ha intervistato Paolo Carsetti, Segretario del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, ente nato nel 2006 per riunire comitati, organizzazioni sociali, sindacati e associazioni che si battono per l’acqua bene comune. Nel 2011 il Forum ottenne il suo risultato più grande: 26 milioni d’italiani votarono a favore della gestione pubblica del servizio idrico. Tuttavia, nonostante l’enorme partecipazione civica, negli anni l’esito referendario non ha trovato concretizzazione e continua invece ad essere tradito nei fatti, come dimostra il Disegno di Legge sulla Concorrenza attualmente in discussione in Senato.

Ma qual è il legame della battaglia per una gestione pubblica con le acque sotterranee, tema della Giornata Mondiale di oggi 22 marzo? Nel nostro Paese la gestione delle falde acquifere è in capo nell’oltre il 90% dei casi a società di capitali (a totale capitale pubblico, a capitale misto pubblico privato, a capitale totalmente privato), mentre solo il 9% circa sono gestioni in economia, aziende speciali, aziende speciali consortili. “Il tema dell’acqua, sia in Italia che nel Mondo, ha visto pochi passi avanti nella suo riconoscimento a livello politico e giuridico” ricorda Marirosa Iannelli, Presidente di Water Grabbing Observatory “In Italia mancano una legge organica sulle acque e una legge sul clima. Il Mediterraneo, secondo l’ultimo report IPCC, è già hot-spot dei cambiamenti climatici e non ci possiamo permettere di non avere un riferimento giuridico chiaro e preciso alle politiche di adattamento, risorse idriche incluse.”

 

Sono passati undici anni dal referendum Acqua Bene Comune. Cosa è cambiato?
Dallo svolgimento del referendum a oggi ci sono stati due diverse direttrici che hanno portato al disconoscimento dell’esito referendario. Formalmente sono state abrogate le norme oggetto dei quesiti, mentre nella sostanza si è impedito l’esito politico del referendum, ossia passare a una gestione pubblica del servizio idrico integrato. Sono stati introdotti una serie di provvedimenti che erano direttamente tesi a contraddire il voto e quindi a rilanciare – seppur in maniera più o meno esplicita – la privatizzazione dei servizi pubblici locali, servizio idrico compreso. Come? La gestione pubblica è stata via via sempre più ostacolata. Prima c’è stato il taglio degli stanziamenti statali verso gli Enti Locali, a seguito dell’introduzione del Patto di Stabilità interno, che ha di fatto ridotto la possibilità di gestione tramite aziende speciali (e quindi gli enti di diritto pubblico). Poi si sono stimolati i processi di aggregazione tra le aziende, che hanno favorito le grandi società quotate in Borsa Multiservizi.

Nel frattempo voi avevate presentato anche una legge di iniziativa popolare per l’acqua pubblica…
Si, e la legge che derivava da quella legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico è rimasta lettera morta anche dopo il referendum. Il Parlamento di fatto non l’ha discussa e, quando l’ha discussa, l’ha stravolta senza riuscire a portarla all’approvazione definitiva. Negli stessi anni c’è stato un tentativo pesante di rilanciare le privatizzazioni da parte del governo Renzi con modifiche apportate al Testo Unico Ambientale (d. lgs 152/2006). Si è andati nella direzione dell’unicità della gestione all’interno degli ambiti territoriali. E questo è in linea con la tendenza verso la costituzione di grandi aziende anche a carattere regionale. Infine, c’è stato il disegno di legge Madia. Il testo riorganizzava la normativa sui servizi pubblici locali attraverso la predisposizione di un Testo unico che poi (per fortuna diciamo noi!) fu censurato dalla Corte costituzionale. Il blocco fu determinato da una questione procedurale e d’intesa tra Stato e Regioni, ma i contenuti e il merito erano pesantemente nella direzione della privatizzazione.

E oggi cosa succede con l’articolo 6 del Ddl Concorrenza?
Oggi ci troviamo in una situazione direi simile a quella del biennio 2015-2016. Il 4 novembre scorso è stato presentato e approvato dal Consiglio dei ministri un disegno di legge delega sulla concorrenza e il mercato il cui articolo 6 rilancia fortemente processi di privatizzazione, indicando come strada ordinaria e prioritaria l’affidamento al mercato. L’articolo 6 subordina la possibilità di gestione pubblica – quella che viene definita “autoproduzione” – a una serie di limiti e passaggi che rendono molto più complicato e complesso quel tipo di scelta da parte degli enti locali. L’ente locale che sceglie la forma pubblica di gestione di un servizio, se passerà il testo, dovrà giustificare il mancato ricorso al mercato motivando tale decisione all’Autorità per la Concorrenza e il Mercato attraverso una relazione anticipata. In secondo luogo, c’è una norma che guarda esplicitamente allo stimolo dei processi di aggregazione e fusione tra aziende, che si può definire una privatizzazione di fatto mascherata.

Queste nuove norme che impatto avrebbero sulle funzioni degli enti locali?
Favorendo la privatizzazione si svilisce il ruolo fondamentale degli enti locali, che in primis dovrebbe garantire servizi essenziali alla collettività. Lo dice anche la nostra Costituzione. Oggi invece resta solo spazio per la cessione al mercato di questi servizi. Come Forum ci stiamo organizzando per costruire una campagna d’informazione e sensibilizzazione che denunci appunto i contenuti del disegno di legge sulla concorrenza e provi a fare in modo che non venga approvata dal Parlamento. C’è poi un’altra questione che mi preme sottolineare. La riforma riguarda tutto il grande ambito dei servizi pubblici, non solo quelli a cosiddetta rilevanza economica come i servizi a rete (acqua, gas, energia elettrica). Si fa riferimento anche ai servizi che rientrano nel cosiddetto Codice del Terzo Settore; quindi, stessa sorte dovranno subire i cosiddetti servizi sociali.  Noi ci vediamo sostanzialmente un approccio ideologico perché appunto la finalità del disegno di legge è proprio quello di eliminare o cancellare i vincoli e i limiti all’apertura al mercato di questi settori.

L’ultimo report IPCC definisce il Mediterraneo come un hot-spot dei cambiamenti climatici. È necessario implementare misure di adattamento. A che punto siamo?
I dati dimostrano che il mercato non è assolutamente sinonimo di efficienza. Quello che si è visto è che la privatizzazione ha portato a un netto e costante aumento delle tariffe del servizio idrico, che sono quelle che in media sono aumentate di più negli ultimi dieci anni rispetto a tutti i servizi pubblici locali. Contemporaneamente però non si è registrato un conseguente aumento degli investimenti. Un leggero rialzo sì, ma non della stessa misura dell’aumento delle tariffe. Come Forum, andando ad analizzare i bilanci, abbiamo visto che quello che invece è incrementato a dismisura sono gli utili e poi i dividendi agli azionisti. E questo è nella logica del mercato. Se si vende un prodotto è evidente che non ci sarà nessun interesse a veder ridurre i consumi, a maggior ragione in previsione della diminuzione della disponibilità dovuta agli effetti dei cambiamenti climatici e del surriscaldamento globale.
Alcune aziende arrivano a dividersi utili pari a circa l’80-90% e quindi è evidente che poi rimane ben poco per fare gli investimenti. Basti pensare alle perdite delle reti idriche, dato in costante aumento come media nazionale ma anche in quelle grandi aziende multiutility quotate in Borsa che vengono prese come modello di efficienza. Acea Ato 2, ad esempio, è ancora molto vicina alla media nazionale intorno al 42 per cento di acqua dispersa in rete. E allora qualcosa non torna nel fatto di narrare che il mercato è ciò che potrà garantire la soluzione dei problemi atavici della gestione del servizio idrico. Stessa cosa vale per la depurazione delle acque reflue, settore che costa all’Italia decine di milioni di euro all’anno di sanzioni derivanti dalle procedure di infrazione della normativa UE.

La via è quella della ripubblicizzazione?
Abbiamo ormai di fronte un ventennio di gestione di fatto privatistica. Questo modello va cambiato quanto fatto prima. D’altra parte, il ritorno a una gestione pubblica è una tendenza in atto in molti Paesi. Parigi e Berlino hanno deciso di riprendersi la gestione diretta del servizio idrico. Lo stesso sta accadendo a Barcellona e in tante altre capitali in giro per il mondo. Municipalità francesi o Paesi del Sud del mondo, che hanno provato sulla loro pelle e prima di noi i processi di privatizzazione, stanno facendo marcia indietro. Purtroppo, in Italia siamo ancora in una condizione paradossale. Siamo l’unico Paese occidentale in cui c’è stata una grandissima mobilitazione sul tema dell’acqua, con un pronunciamento chiaro da parte di oltre 26 milioni di persone. E, invece di ripubblicizzare, siamo nella condizione di continuare a chiederci come rilanciare le privatizzazioni in questo settore.