L’importanza della memoria e l’urgenza del voto

di Chiara Petrelli

 

Ciò che è importante è raramente urgente e ciò che è urgente è raramente importante

Dwight D. Eisenhower

 

Secondo i dati della mappa del rischio climatico dell’Osservatorio Città Clima curato da Legambiente, da gennaio a settembre 2022 l’Italia è stata colpita da 132 eventi climatici estremi, contando tra questi 62 alluvioni (inclusi allagamenti da piogge intense) contro le 88 dell’anno 2021, e la peggiore siccità degli ultimi 500 anni (Joint Research Centre della Commissione UE).

Il rischio presente sul nostro territorio è noto e non mancano certamente conoscenze e tecnologie adatte per programmare provvedimenti a medio e lungo termine, sottraendosi alla frammentazione che c’è stata della cultura dell’acqua oltre alla volontà politica di una visione a breve termine, che allontana questa risorsa dalle amministrazioni pubbliche.

In vista del voto del prossimo 25 settembre, Water Grabbing Observatory ha intervistato Renzo Rosso, ex docente di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia al Politecnico di Milano, dove ha contribuito a fondare l’Ingegneria Ambientale italiana. Nel corso della sua carriera, ha ricevuto  numerosi premi nazionali e internazionali per i suoi contributi fondamentali all’idrologia e alla gestione delle risorse idriche.


Quali crede siano le necessarie azioni che il nuovo parlamento dovrà perseguire per tamponare e tentare di risolvere la situazione idrica critica e prevenirne il ritorno?

Non so che cosa vorranno fare all’ambiente, ma pensare di risolvere i problemi legati ai cambiamenti climatici con la mitigazione è del tutto aleatorio. L’adattamento ha bisogno di pianificazione e sarebbe utile partire dal basso, avere una politica che tenga conto della realtà e che pianifichi azioni di adattamento climatico ragionevoli.

Manca completamente una visione collettiva, una visione globale dei problemi. Aver insistito per due secoli su una conoscenza quantitativa comincia a essere una cosa vecchia che non crea innovazione. L’innovazione e le nuove conoscenze sono molto legate anche a una conoscenza qualitativa. Nelle nuove generazioni questo binomio c’è: una visione unificata, senza divisioni selvagge.

Cosa intende con l’espressione partire dal basso

Significa cambiare un pochino, da parte degli studiosi e degli scienziati, l’approccio tra bottom-up e top-down. Rispetto alle catastrofi naturali e al cambiamento climatico la scienza finora ha avuto soprattutto un approccio top-down: si creano i modelli per capire le variabili di cambiamento. Invece, i problemi si risolvono bottom-up, cioè partire dal capire le situazioni e le possibili soluzioni rispetto a previsioni e scenari più o meno ragionevoli. Un approccio bottom-up è secondo me il futuro. Anche nelle critiche mediatiche che possiamo fare con la divulgazione, piuttosto che dalla catastrofe, creare consapevolezza a partire da quello che le persone fanno, sono capaci di fare e di difendere.

Lei contesta la narrazione di fenomeni irripetibili che stiamo avendo rispetto alla situazione idrica in Italia…

La siccità battezzata come irripetibile da giornali e tv, non è finita per niente. L’irripetibilità è solo l’esito del rifiuto della memoria. Guardando alle siccità già vissute in questo secolo, parlare di siccità irripetibile è un ossimoro, utile solo a chi abusa della credulità popolare. La legge di Murphy ci dice che se qualcosa è andato male in futuro andrà peggio, è dimostrabile statisticamente con un paio di teoremi e dal tempo di ritorno degli avvenimenti (tempo medio intercorrente tra il verificarsi di due eventi successivi di intensità uguale o superiore ndr). Ci dobbiamo sempre aspettare un evento più avverso di quelli già visti.

Il focus sulle emergenze insito nei media e nella politica, rappresenta il ragionamento guidato dall’urgenza dell’immediatezza e sottolinea la mancanza in Italia della pianificazione. Possiamo spiegarci in questo modo la scelta di affidare il potere alla Protezione Civile, privilegiando alla pianificazione la realizzazione di opere emergenziali.

Come potremmo usare a nostro beneficio i dati combinati della conoscenza acquisita dal passato – come la grande siccità del 1976 o le raccomandazioni dell’Europa del 2008 (1) – e la descrizione dello stato attuale che si può ottenere anche grazie all’utilizzo di tecnologie come quella satellitare (2)?

II passato non prevede il futuro, ma sicuramente la conoscenza del passato insegna molto a comprendere quello che accade e in qualche modo a cercare di avere sistemi più resilienti, soprattutto in un’epoca di transitorio climatico come quella che stiamo vivendo. Il sistema non è stazionario, ha forti anomalie.

Il satellite ha modificato il modo con cui noi vediamo la natura del mondo, ma la sintesi si fa a terra. Faccio parte della generazione che per la prima volta nel 1975 ha visto un satellite NASA che mandava i primi dati. È una conoscenza importante perché dà, per esempio, la possibilità di verificare l’umidità del suolo, cosa difficilissima, ma la penetrazione su terra è bassissima. Per noi che usiamo per 9/10 acqua di falda, questo è un aspetto fondamentale che con il satellite non vedi.

I nuovi strumenti messi a disposizione dalla tecnologia ci possono aiutare a prevenire e, quindi,  mitigare il rischio?

Le possibilità di prevedere ci sono, senza esagerare. In questi giorni stiamo vedendo il disastro del fiume Misa. Certo è che con due calcoli economico finanziari e con i recenti studi sui costi psicologici, è meglio dare dieci falsi allarmi che un mancato allarme. 

Per riprendere il concetto di tecnologia dal basso, con il Politecnico di Milano abbiamo coordinato il progetto FLORIMAP (smart FLOod RIsk MAnagement Policies), relativo ai problemi di valutazione del pericolo alluvionale e alla mappatura dell’esposizione e vulnerabilità, anche tramite l’uso di social e cellulari. In questo quadro, diventa indispensabile un focus specifico sull’impatto della comunicazione e della percezione pubblica sulla gestione del rischio. L’aspetto psicologico delle persone di fronte a questi fenomeni, che possono essere le alluvioni, le piene e terremoti e cose di questo tipo, va studiato e controllato. Chi fa assistenza mediatica, e si occupa dei media dovrebbe leggersi un po’ queste cose e farsi carico di questi aspetti.

 

 

(1) Relazione su come affrontare il problema della carenza idrica e della siccità nell’Unione Europea 2008/2074(INI) in merito al miglioramento e rinnovo di infrastrutture tecnologiche per facilitare l’uso efficiente dell’acqua e della gestione integrata delle risorse idriche

(2) Mosaicatura satellitare dell’Indice Standardizzato Precipitazione-Evapotraspirazione (SPEI).

Oro nero contro oro blu: la crisi idrica in Libia non è ancora finita

 

di Silvia Sarti  

 

La conformazione geografica della Libia non ha mai giocato un ruolo favorevole per il Paese, che è tra i più aridi del mondo e con una disponibilità di risorse idriche che rasenta il minimo indispensabile. Al contrario è una miniera di oro per quanto riguarda la disponibilità di petrolio. In questa spaccatura tra “oro blu” e “oro nero” si intreccia anche una storia politica molto complessa, dove il ruolo di Gheddafi è stato fondamentale nell’indirizzare la Libia verso l’autosostentamento idrico e il surplus energetico, portando le estrazioni di petrolio a livelli record e mai visti prima mentre la caduta del governo nel 2011 e l’inizio della guerra civile hanno raso al suolo ogni traguardo raggiunto. Oggi la Libia vive una condizione di siccità senza precedenti, la produzione e l’esportazione di petrolio è ben lontana dall’epoca dell’oro e la crisi alimentare è dietro l’angolo, anche a causa del conflitto Russia-Ucraina. Infine, il Paese è letteralmente spaccato in due dal punto di vista politico.


Acqua e petrolio

Negli ultimi anni, in Libia, i cambiamenti climatici hanno inasprito la preesistente situazione di grave insufficienza idrica che per conformazione geografica caratterizza un Paese tra i più aridi del mondo e con oltre il 90% di terre desertiche. La Libia, infatti, non ha fiumi, se non qualche corso d’acqua superficiale, e le precipitazioni sono praticamente assenti, limitate agli occasionali  temporali invernali. Il contributo totale delle acque superficiali all’approvvigionamento idrico del Paese è minore del 3% mentre hanno un peso totalizzante le fonti d’acqua sotterranee e le cosiddette “fonti d’acqua non convenzionali”, derivanti dal processo di dissalazione e dal trattamento delle acque reflue. Lo sfruttamento delle risorse negli anni è divenuto sempre più importante, soprattutto se si pensa al ruolo che queste hanno avuto a seguito del boom petrolifero degli anni Sessanta

L’estrazione e la lavorazione del petrolio comportano uno sforzo idrico considerevole: l’acqua viene utilizzata sia come fluido di perforazione che di produzione del petrolio, iniettata nei pozzi petroliferi per incentivare la fuoriuscita del greggio dal giacimento. In media, le prime fasi della lavorazione del petrolio possono richiedere da alcune centinaia fino a diverse decine di migliaia di litri di acqua per ogni barile estratto. Dunque, senza acqua non c’è nemmeno il petrolio. Allo stesso tempo, in Libia gli idrocarburi sono l’unica ricchezza del Paese – con 48 miliardi di barili di riserve accertate – e ciò potrebbe giustificare l’eccessivo dispendio idrico per la produzione energetica a discapito della quantità e qualità di acqua destinata a soddisfare il fabbisogno alimentare e igienico-sanitario del Paese.

Poca acqua, scarsa governance

Quello dell’acqua in Libia, però, non è solo un problema di scarsità. L’emergenza idrica non riguarda solo i fattori climatici e la conformazione geografica del territorio, ma è direttamente imputabile alla gestione politica e socio-economica di tali risorse. Innanzitutto, il Paese oggi è politicamente spaccato in due. Il primo febbraio di quest’anno Fathi Bashagha è stato eletto Primo Ministro del Paese, o almeno così è quanto avvenuto a Tobruk, nella zona orientale della Libia, mentre a Tripoli il leader Dbeibah, primo ministro del Governo di Unità Nazionale,  si è opposto in tutti i modi alla nascita del nuovo governo. Una divisione che, naturalmente, si è riflessa anche sullo scenario internazionale: il neo Governo di Sicurezza Nazionale presieduto da Bashaga è sostenuto da Qatar, Arabia Saudita, Russia ed Egitto mentre Emirati Arabi Uniti e Turchia si sono schierati a fianco di Dbeibah

In secondo luogo, un primo passo per una migliore gestione dell’acqua nel Paese è stato fatto solamente nel 2012, con l’istituzione del Ministero delle Risorse Idriche, oggi denominato General Water Resources Authority. Nonostante gli sforzi iniziali, la legiferazione dell’Autorità evidenzia notevoli lacune: ancora oggi, ad esempio, è del tutto assente una regolamentazione dell’uso delle risorse nel settore rurale. Una lacuna sbalorditiva se si pensa che oltre l’80% dell’acqua del Paese è utilizzata proprio a scopo irriguo. Inoltre, nei rapporti nazionali non vengono quasi mai menzionati gli effetti del cambiamento climatico sulla disponibilità di acqua. Eppure, secondo quanto affermato dall’USAID nel “Climate Risk Profile” della Libia, entro il 2050 si prevede un aumento della temperatura annua di 2°C, l’aumento della frequenza di siccità e desertificazione, tempeste di sabbia, inondazioni e una diminuzione delle precipitazioni medie annuali del 7%. Anche per questi motivi, il 70% della popolazione oggi vive lungo le coste per poter sfruttare a vantaggio dell’agricoltura le risorse naturali disponibili nei territori meno aridi, ma nel complesso solo 3,8 milioni di ettari (poco meno del  2% della superficie del Paese) è realmente coltivabile e solo il 5% riceve più di 100 millimetri di pioggia all’anno. Ciò non basta a soddisfare il fabbisogno alimentare del Paese poiché il 75% dei prodotti alimentari sono importati dall’estero. È di facile intuizione capire come, ad esempio, la situazione mondiale odierna abbia ulteriori ripercussioni negative sulla sicurezza alimentare libica. Il grano proveniente dall’Ucraina soddisfa il fabbisogno alimentare della Libia per oltre il 40%, ma la riduzione della produzione ed esportazione di materie prime ucraine e il conseguente aumento dei prezzi (in Libia il prezzo della farina di frumento è aumentato del 15% rispetto al periodo precedente il conflitto) mettono in allarme anche il World Food Programme

Se in Libia l’oro blu ha sempre scarseggiato, per l’oro nero è vero l’esatto opposto. Prima della caduta del regime di Gheddafi nel 2011, l’estrazione arrivava fino a 1,74 milioni di greggio al giorno. Facendo una media dei prezzi al Brent dei primi mesi del 2011, in un solo giorno la Libia produceva quindi petrolio per un valore di 187 milioni di dollari. All’inizio dell’ultimo decennio, le riserve libiche ammontavano a quasi il 40% di quelle di tutta l’Africa, collocando il Paese tra i primi dieci produttori, ed esportatori, di petrolio a livello mondiale. Nonostante tale primato, la guerra civile iniziata lo scorso decennio ha provocato un grave contraccolpo alla ricchezza del Paese. In soli due anni dallo scoppio del conflitto la produzione di barili giornalieri si è dimezzata, passando da una media di 900 mila barili a una di 450 mila nel 2014, rimbalzando successivamente a oltre 1 milione di barili al giorno prima del recente blocco all’esportazione, all’inizio di quest’anno. A giugno la produzione si è arrestata a una media di circa 100 mila barili al giorno, nonostante la domanda crescente causata dal conflitto Russia-Ucraina. Un numero molto lontano dagli obiettivi di 1,45 milioni di barili giornalieri  entro la fine del 2022 e di 1,6 entro la fine del 2023 dal Ministro Mohamed Aoun. Non solo l’acqua, dunque, ma anche le risorse energetiche e l’intera economia libiche risentono fortemente delle fluttuazioni politiche interne e, in questo senso, il 2011 può essere considerato come l’inizio della fine. La guerra civile ha provocato danni diretti inestimabili in termini di vite umane, ma danni altrettanto irreversibili si contano proprio a partire dalle conseguenze del conflitto sulle risorse naturali. Il più grande esempio in questi termini è stato sicuramente il bombardamento del più ambizioso progetto di approvvigionamento idrico del paese, il Great Man-Made River Project, avviato da Gheddafi negli anni ‘80.

Il gigante incompiuto

L’opera prevedeva la costruzione di un grande fiume artificiale in grado di assicurare il trasferimento, tramite un acquedotto, di oltre 6 milioni di metri cubi di acqua al giorno dalla falda a sud del Paese verso Tripoli e Bengasi

Come riassume la rivista specializzata Water Technology, la realizzazione sarebbe avvenuta in più fasi. La prima prevedeva la fornitura di 2 milioni di metri cubi lungo 1.200 km di condotte da As-Safir e Tazerbo al bacino idrico di Ajdabiya, più a nord, fino a Bengasi e Sirte; la seconda il pompaggio dalla falda acquifera sudoccidentale di Fezzan a Tripoli e nella pianura di Jeffara, nella costiera occidentale; la terza prevedeva invece l’ampliamento del sistema costruito nella prima fase del progetto, con la fornitura di altri 1,68 milioni di metri cubi al giorno, la costruzione di otto nuove stazioni di pompaggio e 700 km di nuova condotta. La quarta e la quinta, infine, avrebbero permesso il collegamento a Sirte dei condotti di approvvigionamento di acqua orientali e occidentali attraverso un’unica grande rete idrica. La capacità totale sarebbe stata di circa 6,5 ​​milioni di metri cubi di acqua al giorno e circa 4.000 km di gasdotti.

Il progetto si è arrestato alla terza fase nel 2007 e nel 2011 sono iniziati i primi attacchi militari dalle forze Nato, rivolti anche al condotto stesso. La perdita di tale bacino di approvvigionamento, il conflitto costante, la precaria struttura istituzionale alla base della gestione delle risorse, in aggiunta ai cambiamenti climatici, con l’innalzamento delle temperature e sempre più ricorrenti fenomeni di siccità, la contaminazione dell’acqua e la compromissione degli impianti di desalinazione nella zona costiera del Paese sono solo alcune delle cause alla base della più grave crisi idrica libica di tutti i tempi. In più occasioni, infatti, l’acqua è diventata una vera e propria arma protagonista di questo lungo conflitto. Le milizie hanno lasciato, strategicamente secondo la logica della guerra, intere cittàsenza acqua per giorni interi. Ma l’acqua non è un’arma di guerra solo per chi sta al comando. Infatti, in un contesto di scarsità, dove le risorse diventano preziose come l’oro, tutti corrono all’accaparramento. Ne sono esempio episodi come lo smantellamento dei pozzi del sistema dei gasdotti per la vendita del rame, di cui sono composte le teste dei pozzi, o la minaccia delle chiusura delle condutture idriche da parte delle bande armate

Tra guerra e siccità

Non solo, la diminuzione generale delle precipitazioni, con inondazioni occasionali dannevoli per il terreno, e l’imprevedibilità della disponibilità di risorse per l’irrigazione, hanno provocato il prosciugamento dei i bacini idrici disponibili – come la diga di Wadi Kaam che fino ad allora aveva una capacità di contenimento pari a 33 milioni di metri cubi di acqua – e nuovi fenomeni migratori interni. Ancora una volta gli agricoltori locali, che avevano trovato giovamento dal Great Man-Made River Project – ne è un chiaro esempio quello della città di Abu Shieba che grazie al progetto aveva raddoppiato gli ettari di terra coltivabile e dato occupazione a più di 300 agricoltori contro i 117 del periodo precedente l’impianto – sono stati costretti ad abbandonare le proprie terre per spostarsi in cerca di acqua. 

Anche se una valutazione d’impatto ambientale completa del Great Man-Made River Project non è del tutto possibile e i pro e i contro andrebbero bilanciati attentamente, nell’espressione di un qualsiasi giudizio va comunque tenuto conto che più che un progetto visionario in termini assoluti questo abbia rappresentato l’unica risposta trovata alla risoluzione di un problema di grave emergenza idrica. 

La ricercatrice Julie Trotter ha riassunto le motivazioni che stanno alla base di una crisi idrica in questi termini “Una crisi idrica non può mai essere definita semplicemente come una carenza d’acqua perché la natura non è mai a corto d’acqua. Anche il deserto più arido costituisce un ecosistema. L’acqua è scarsa solo quando gli attori sociali hanno deciso che è così per una serie di motivi”. Se si applica questa definizione al caso libico, in prima battuta ciò potrebbe non sembrare vero: la Libia, di fatto, è uno dei Paesi più aridi del mondo. Allo stesso tempo però, se si analizzano i processi decisionali politici in materia di acqua ed energia, lo scenario che si palesa è ben diverso: non solo la gestione delle risorse idriche post Gheddafi ha fallito nel portare a termine il progetto “visionario” del suo predecessore ma in Libia continua ancora oggi una battaglia interna tra “oro nero” e “oro blu”. E se è vero che senza acqua non si può ancora produrre petrolio – e senza petrolio la Libia non sarebbe più quel tesoro da “Mille e una notte” – è anche vero che prima di tutto senza acqua non c’è vita.

Il 17 giugno è la Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità

 

di Marco Ranocchiari  – Photo Credit: Joetography

 

Il 17 giugno si celebra la Giornata mondiale della lotta alla desertificazione e alla siccità. La ricorrenza cade in un anno che vede la produzione agricola di molte zone del mondo – dalla California al Cile al sud-est asiatico, passando per l’Italia – minacciata da siccità gravi o estreme, e oltre due miliardi di persone in condizioni di stress idrico. Secondo il Global Land Outlook, report ufficiale dell’Onu sulla desertificazione, la degradazione del suolo interessa il 40% del pianeta e sta causando “un danno ambientale senza precedenti, contribuendo in modo significativo al riscaldamento globale”. Eppure contrastare il fenomeno è possibile, oltre a essere economicamente vantaggioso.  Un mese fa, alla conferenza delle Nazioni Unite di Abidjan, in Costa d’Avorio, i rappresentanti di 196 Paesi si sono impegnati a ripristinare un miliardo di ettari di terreni degradati entro il 2030. Intanto si moltiplicano le iniziative sul campo, come la “Muraglia verde” del Sahel.

 

La giornata 2022 e gli impegni dell’ONU

Quest’anno le celebrazioni ufficiali della Giornata contro la desertificazione si terranno in Spagna, a Madrid, paese tra i più vulnerabili allo stress idrico e agli impatti dei cambiamenti climatici. L’edizione 2022 della ricorrenza istituita nel 1995 dalle Nazioni Unite è dedicata in particolare alla siccità. In un anno in cui la carenza di precipitazioni raggiunge livelli record – dall’ovest degli Stati Uniti, dove sembra essere addirittura la peggiore degli ultimi 1200 anni al Cile all’India e Pakistan passando per l’Italia, il focus non poteva essere più attuale. “Le recenti siccità indicano un futuro precario per il mondo”, ha dichiarato Ibrahim Thiaw, Segretario esecutivo dell’UNCCD, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione. “Negli ultimi anni si sono intensificate le carenze di cibo e acqua e gli incendi  causati dalla grave siccità”.

Un mese fa ad Abidjan, in Costa d’Avorio, si è svolta la COP15, Conferenza delle Parti sulla desertificazione, uno dei tre incontri istituiti dalla Convenzione di Rio (insieme alla più famosa COP27 sui cambiamenti climatici,  che si svolgerà a novembre in Egitto, e quella sulla biodiversità, che dovrebbe svolgersi in Cina). I partecipanti hanno sottoscritto trentotto impegni, tra cui il ripristino di un miliardo di ettari di terreno degradato entro il 2030, l’istituzione di un Gruppo di lavoro intergovernativo sulla siccità e l’impegno ad affrontare le migrazioni forzate connesse al degrado dei terreni.  Un’enfasi particolare è stata attribuita all’uguaglianza di genere e alla consapevolezza che in molte regioni la desertificazione aumenta l’onere del lavoro, spesso non retribuito, di donne e ragazze.

 

Un problema globale 

Contrariamente a quanto spesso divulgato dai media, la desertificazione non consiste semplicemente nell’espansione delle aree desertiche, ma alla degradazione del suolo, con conseguente diminuzione della capacità produttiva, e riguarda tutti i continenti. Le conseguenze vanno dall’insicurezza idrica e alimentare alle migrazioni, oltre alle crisi economiche e una drammatica perdita della biodiversità. Nell’aprile di quest’anno è stato pubblicato il Global Land Outlook, il report delle Nazioni Unite su cui si è basata la maggior parte dei lavori della COP15. 

A suolo, acqua e biodiversità, si legge nel rapporto, è legata oltre metà del PIL globale, eppure raramente le società hanno questa consapevolezza. Il degrado del suolo colpisce tra il 20 e il 40% della superficie terrestre e quasi la metà della popolazione mondiale. 

La degradazione dei suoli è strettamente legata ai cambiamenti climatici e alla carenza idrica e quindi alla siccità. Secondo il report Drought in numbers 2022, presentato durante la COP15, gli eventi siccitosi sono aumentati del 29% negli ultimi vent’anni, colpendo quasi un miliardo e mezzo di persone. Sono 160 milioni i bambini esposti alla siccità estreme, e la cifra potrebbe salire entro il 2040 fino a interessare un bambino su quattro. Sebbene il 90% delle vittime si registri nei paesi in via di sviluppo, anche il Nord globale è esposto, con il 15% della popolazione europea che in media ogni anno si trova in territori che affrontano la carenza di precipitazioni.

Nel vecchio continente, l’Italia è tra i paesi più esposti sia al degrado del suolo che alla siccità. Negli ultimi mesi, alla perdurante carenza idrica del nord e sulle Alpi con il livello dei fiumi vicini ai minimi storici per il periodo, si è aggiunto lo spettro del razionamento dell’acqua potabile in Italia centrale, a causa degli scarsi livelli di riserve idriche essenziali come il Lago di Bracciano, il fiume Aniene e le falde dell’Appennino abruzzese.

Secondo i dati del Sistema nazionale per la protezione dell’Ambiente (SNPA) in Italia risulta molto vulnerabile alla degradazione  il 10% dei suoli – percentuale che sale al 49% considerando le aree a vulnerabilità media – a causa di numerosi fattori, tra cui erosione, salinizzazione, contaminazione e consumo di suolo, e il tutto è aggravato dall’aumento dei fenomeni siccitosi e dai cambiamenti climatici.

 

L’agenda: prevenzione e ripristino

Le azioni per raggiungere una “Land Degradation Neutrality” individuate dalle Nazioni Unite si concentrano su due direzioni: evitare nuova degradazione dei suoli e invertire la tendenza tramite il ripristino dei suoli danneggiati. Ognuna di queste pratiche dovrebbe basarsi su una raccolta dati scientificamente accurata, ma soprattutto deve essere interdisciplinare e partecipativa. Un approccio, cioè, integrato, basato sul coinvolgimento delle categorie coinvolte direttamente nella gestione dei territori, in primis quelle più vulnerabili (donne e comunità locali), in sinergia con altri obiettivi globali come quelli dell’Agenda 2030, dalla lotta alla povertà e dei diritti umani. Una sfida cruciale è rendere più sostenibile l’agricoltura, responsabile da sola dell’80% della deforestazione e che consuma il 70% dell’acqua dolce, tramite incentivi per buone pratiche ed eliminazione di quelli che consumano più risorse.

Il ripristino dei territori, scrivono gli autori del Global Land Outlook, consente allo stesso tempo di contrastare e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, ed è economicamente conveniente: ogni dollaro investito nel ripristino si stima possa restituire tra i 7 e i 30 dollari in benefici economici.

Tra le iniziative di ripristino figurano, oltre alle molte a scala locale, alcune grandiose come la Grande Muraglia Verde africana, che consiste in una distesa di alberi lunga quasi ottomila chilometri nel Sahel. Annunciato nel 2007, il progetto è pensato con criteri più moderni rispetto alla sua omologa cinese, prevenendone i potenziali effetti negativi ambientali. Dopo 15 anni è però ancora alle battute iniziali tra ritardi, ostacoli organizzativi e infrastrutturali.

Alcune Ong presenti al summit di Abidjan come Save Environment and People Agency, dello Zambia, sostengono che al di là delle dichiarazioni la volontà di coinvolgere società civile, donne e gruppi marginalizzati rimanga solo un impegno di facciata.

Il mondo, scrivono gli autori del Global Land Outlook, si trova ad affrontare una confluenza di crisi senza precedenti: la pandemia COVID-19 si è fusa con i continui e inarrestabili cambiamenti globali del clima, del territorio e della biodiversità. Nel frattempo si è aggiunta anche la guerra in Ucraina, che minaccia di provocare una gravissima crisi alimentare nei paesi già esposti alla siccità. La strada contro gli impatti di desertificazione e siccità è ancora lunga, ma intraprenderla senza ulteriori tentennamenti diventa sempre più urgente.