Altro che giornata mondiale: le acque italiane sono un disastro

Di Emanuele Bompan (per Linkiesta)

Fa acqua da tutte le parti, verrebbe da dire, parlando del sistema idrico italiano. Aumenta il consumo idrico, diminuisce la disponibilità a causa dei cambiamenti climatici – nevica meno, piove meno – e peggiora la qualità delle acque e degli ambienti acquatici a causa di una pessima gestione. E l’estate 2019 si preannuncia essere come quella 2017: fortemente siccitosa e a rischio allarme idrico. Basta vedere il fiume Po in questi giorni: il livello è 7 metri sotto il livello idrometrico. Sulle sponde emiliane sembra di essere ad agosto, invece che a marzo.

Le avvisaglie per una crisi idrica alle porte ci sono tutte. Ma il sistema-Paese sull’acqua continua a rimanere completamente inattivo e poco propenso a una cabina di regia seria, troppo spesso frammentata nella pletora di autorità a cui l’acqua è di competenza (autorità di bacino, Arpa, ministeri, ecc), oppure incapace di anticipare trend futuri in maniera strategia (adattamento ai cambiamenti climatici). Con la conseguenza che nei prossimi anni ci costerà altri punti di PIL.

Si parte dalla qualità dell’acqua che in varie regioni del Paese rimane insufficiente. Basta vedere la nota della Commissione EU dello scorso ottobre, dove si denuncia all’Italia il mancato svolgimento del riesame delle zone vulnerabili ai nitrati (da fare ogni 4 anni), il monitoraggio acque e l’adozione di misure supplementari in un serie di regioni interessate dall’inquinamento da nitrati. Sotto accusa sempre più spesso l’agricoltura insostenibile e l’uso estensivo di pesticidi e fertilizzanti e la concentrazione sempre crescente di microplastiche nelle acque nostrane. Una situazione particolarmente allarmante è la contaminazione da PFAS in Veneto, che interessa 350 mila persone, di cui 90 mila sotto controllo a causa della contaminazione delle acque da parte dell’azienda Miteni. Queste particelle, infatti, potrebbero essere altamente tossiche per la salute della popolazione. Ma mancano ancora prove scientifiche chiare. Certo si poteva prevenire. Il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Treviso ha denunciato proprio ieri che l’inquinamento da PFAS poteva essere reso pubblico e affrontato già tredici anni fa. Nel 2006. Arpav, l’agenzia protezione ambiente Veneto, sapeva cosa stava accadendo, ma omise di far emergere la questione.

Malissimo anche lo Stato Ecologico delle acque superficiali, che rimane decisamente critico. Gli ultimi dati disponibili sulla qualità degli ambienti umidi (ignorati da tutta la stampa) evidenziano che solo il 43% dei fiumi raggiunge l’obiettivo di qualità (38% buono e 5% elevato) mentre il 41% rimane ancora al di sotto e il 16% non è stato classificato.

Peggiore la condizione dei laghi: soltanto il 20 % ha uno Stato Ecologico in linea con i limiti normativi (3 % elevato e 17 % buono) mentre il 39 % è ancora distante dall’obiettivo di qualità. Le ragioni? «Ci sono problemi di gestione dei sedimenti, di gestione della biodiversità, di una pianificazione intelligente delle aree post-alluvioni, serve maggiore manutenzione in alcuni casi, e meno dove questo significa alterare gli ecosistemi fluviali», risponde Andrea Goltara, Direttore CIRF – Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale. Questo significa non agire davvero nella prevenzione del dissesto idrogeologico. Spaventosa la mancanza di dati. Per il 41 % di questi corpi idrici mancano totalmente i dati necessari a un’adeguata classificazione. E senza informazione la pianificazione è assolutamente inutile.

Si prosegue con la lista degli orrori. Il gap infrastrutturale di gestione acque è gravissimo: le infrastrutture del settore idrico in Italia sono in gran parte obsolete e tra le peggiori in Europa. Secondo il Blue Book di Utilitalia, che prende in considerazione 54 gestori e una popolazione di 31 milioni di abitanti, le reti sono un vero colabrodo: il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa oltre 30 anni fa (percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani) e il 25% di queste supera i 50 anni (arrivando al 40% nei grandi centri urbani). Si perde in media il 40% dell’acqua, con percentuali differenziate: al Nord ci si attesta al 26%, al Centro al 46% e al Sud al 45%. A riprova che anche con il privato la cattiva gestione rimane diffusa.

Va avanti intanto il dibattito su chi dovrebbe gestire l’acqua nel nostro paese. Secondo la parlamentare M5S Federica Daga, promotrice del disegno legge sulle acque «si devono escludere i profitti e la finanza dalla gestione dell’acqua essendo un diritto umano universale: vogliamo che ogni centesimo che il cittadino paga in bolletta si trasformi in investimenti per il miglioramento del servizio». La proposta rientra in una tendenza internazionale a togliere il privato dalla gestione acque. L’acqua e le sue infrastrutture sono di tutti. «In questi anni abbiamo visto aumentare gli utili e diminuire gli investimenti. Il Paese ha urgente bisogno di interventi sulle infrastrutture idriche, la vera grande opera utile», aggiunge Daga. Le società private come Hera, Iren e Acea sono ovviamente sul piede di guerra e annunciano costi stellari per la transizione e posti di lavoro a rischio. Purtroppo perdura il fatto che per 20 anni dove avrebbero potuto eventualmente dimostrare di migliorare il sistema paese (alcuni lo hanno fatto) e realmente potenziare le infrastrutture, sanare le tubature in piombo e amianto e migliore la sicurezza idrica del paese. Se queste utilities venissero rimunicipalizzate servirebbe comunque una riforma complessiva di gestione dell’infrastruttura idrica. Per evitare sprechi e inefficienze. «Dobbiamo allargare sempre di più la visione sulla gestione delle acque. Noi stiamo immaginando una transizione, dove i soldi siano messi nelle infrastrutture, a costo quasi zero», aggiunge Daga. Vedremo i pareri tecnici.

Intanto oggi è la giornata mondiale dell’acqua e sullo spreco possiamo fare qualcosa anche noi cittadini responsabili: non basta fare la doccia invece che il bagno. La grossa impronta idrica sta in quello che mettete nel vostro piatto!